Ieri sera sulla pagina di Katia ho trovato questo scritto...
Mi ha emozionata perché, a parte il luogo di destinazione e la casa, è lo stesso identico mio vissuto e le mie stesse sensazioni! Si parte con due valige a testa per non soccombere perchè, come dice l'autrice: il dovere di darsi un limite oltre il quale bisogna semplicemente andarsene.
Solo un'altra che se ne va.
Siamo in tanti ad andarcene, ormai è un’emorragia. Io sono solo una di una folla, ma stavolta sono io e non un altro: questo, nella mia sceneggiatura personale, fa la differenza.
Tutto è diverso quando sei tu e non un altro.
Per questo, in Italia lascio un lavoro a tempo indeterminato, una casa, un’auto, la mia famiglia e tutte le certezze, le radici che ho. Parto arrabbiata, con la fretta di chi sente di abbandonare una nave che sta affondando.
Ogni giorno mi alzo dal mio letto sentendo di subire un’ingiustizia che non sono più disposta a sopportare, con l’unico rammarico di aver stupidamente sperato troppo a lungo di poter in qualche modo, nel mio piccolo, cambiare le cose.
Me ne vado perché sono stufa di lavorare come un asino e vedermi sottratta la maggior parte del reddito da uno Stato che io considero vergognoso da troppi decenni.
Sono stanca delle lobby che se la suonano e se la cantano, del sistema che disincentiva l’impresa, dei cugini e fratelli che occupano posizioni strategiche.
Non sopporto più l’intoccabilità degli incompetenti, il mercato del lavoro mortificante e impazzito. Io e il mio compagno stiamo lasciando tutte le nostre certezze.
Partiremo con due mutui alle spalle verso una città molto costosa, dove dovremmo guadagnare abbastanza per mantenere le case e i conti italiani (di cui non riusciamo a disfarci) e la nuova vita che ci aspetta.
Saremo immigrati, e tra non molto sogneremo in una lingua diversa anche se non la sapremo nemmeno parlare come si deve. Io che sono stata sempre molto consapevole delle mie pecche professionali ma anche dei miei punti forti, ora non sono più sicura di niente, perché lasciare tutto significa anche mettersi in discussione come mai prima, affrontare ambienti nuovi, giocare una partita infinitamente più competitiva: nessuno mi dica “ti invidio”.
Non so come andrà, ma restare a guardare non è mai stata un’opzione. Perché vogliamo fare e vogliamo fare bene, non chiediamo altro che un sistema che ce lo permetta, riconoscimento del lavoro che facciamo, pagamenti puntuali, tasse eque: quello che dovrebbe essere la normalità e che in Italia è diventato un miraggio.
Prepariamo cartoni e grandi hard disk esterni, installiamo Skype sul telefono di mamma e papà, mettiamo in vendita cose, ne regaliamo molte altre, chiudiamo utenze, scegliamo cosa ci accompagnerà oltre Manica e cosa no. La vita in due valigie. Nelle valigie, i tanti amici.
Sono felice perché con noi non se ne vanno due disoccupati, ma due che un lavoro ce l’avevano e che l’hanno lasciato a chi ne aveva bisogno. Per il resto, credo che tutte le persone in qualche modo insoddisfatte, arrabbiate, infelici o frustrate da una certa situazione abbiano non solo l’obbligo personale e sociale (perché l’infelicità ha un costo sociale altissimo) di provare in tutti i modi a migliorarla, ma anche il dovere di darsi un limite oltre il quale bisogna semplicemente andarsene: da un sentimento, da un luogo.
Ad un certo punto occorre cambiare treno. Così.
Testo originale Elenatorresani: