Oggi, in un post su thread, si parlava di beneficenza, di aiutare chi è in difficoltà. Ho raccontato di quando vivevo nella Repubblica Dominicana: spesso passava gente a chiedermi qualcosa. A volte erano soldi, a volte cibo. Io non ho mai dato denaro, ma se qualcuno mi chiedeva del cibo, davo quello che avevo e di cui avevano bisogno. Il più delle volte non tornavano, perché quello che cercavano davvero erano soldi per comprarsi alcol o droghe. Un utente ha commentato sotto il mio post scrivendo: “Sei stata fortunata.”
All’inizio non ci ho fatto troppo caso, ho pensato semplicemente che non avesse capito il senso del mio racconto. Poi però ho riflettuto su quella parola: fortunata.
Forse intendeva che sono stata fortunata ad aver aiutato qualcuno che non ha approfittato di me. O forse pensava che sia una fortuna riuscire ad aiutare senza essere delusi.
Ma io non credo che la fortuna c’entri. Io ho aiutato perché volevo farlo. Non mi sono mai sentita né ingenua né imbrogliata.
Chiedere è lecito, rispondere è cortesia. E se qualcuno non è tornato, non me ne è mai fregato niente. Per me, aiutare è una scelta, non una scommessa. Non cerco riconoscenza, non pretendo gratitudine.
Il problema di questo mondo è proprio la ricerca costante di riconoscenza. Viviamo immersi nel do ut des, come se ogni gesto dovesse essere ricambiato, come se la bontà avesse bisogno di una ricevuta.
E finché non impareremo a fare le cose solo per il gusto di farle, ci saranno sempre battaglie, sempre discussioni, sempre frasi come: “Io ti ho dato, ma tu…”, “Io ho aiutato, ma lui…”, “Io ho fatto qualcosa, ma l’altro…”.
Una catena infinita di aspettative e delusioni. Perché il vero nodo è sempre lo stesso: la consapevolezza. Consapevolezza di sé, di ciò che si fa e del perché lo si fa.
Senza questa, non si va da nessuna parte. Senza questa, anche il gesto più bello perde il suo senso.