Non è il chatbot: è la solitudine che non ascoltiamo

Non è il chatbot il problema



L’altro giorno leggevo un articolo sul presunto “innamoramento” di una donna verso un chatbot.
E ho avuto quella sensazione netta: si sta guardando il dito, invece della luna.

Non perché la storia sia inventata o irrilevante.
Ma perché viene raccontata come se il nodo fosse l’intelligenza artificiale, quando in realtà il cuore del problema è profondamente umano.

Nel racconto emerge chiaramente che il marito era emotivamente assente.
Ed è da lì che nasce tutto.
L’IA non ha sostituito una relazione sana: ha occupato uno spazio già vuoto.

Come spesso accade, non si cerca una macchina per amore.
Si cerca qualcosa, qualsiasi cosa, quando manca l’ascolto, la presenza, il riconoscimento.

Attribuire all’algoritmo un potere seduttivo autonomo è una semplificazione parecchio comoda.
Dai, lo sappiamo tutti che intelligenza artificiale non ama, non desidera, non manipola.
Risponde dentro i confini che l’essere umano costruisce.
Se appare empatica è perché rispecchia, non perché prova.

Il vero tema, allora, non è “una donna che si innamora di un chatbot”.
È una solitudine che non ha trovato spazio altrove.

E questo dovrebbe interrogarci non sulla tecnologia, ma sulle relazioni.
Sul modo in cui ascoltiamo, o non ascoltiamo, chi ci è accanto.

Raccontare questa storia come una curiosità quasi patologica rischia di farci perdere l’occasione di una riflessione più profonda.
Non su cosa le macchine stanno diventando.
Ma su cosa stiamo smettendo di essere noi.

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